L’ultima tela, a metà interrotta, è ancora sul cavalletto. Niente, nel piccolo attico adibito a studio, è mutato da quando Emilio Fontana ha smesso di salire la stretta scala a chiocciola, aiutandosi con una corda che lui stesso aveva sistemato, per venire qui e dipingere. Pennelli, attrezzi, spazzole, biglietti da visita sono custoditi dentro un banco di legno; davanti la sedia, vicino la porta l’armadio con i libri d’arte e vecchi disegni in una scatola di cartone, sulla parete alcune foto, accanto la tavolozza impiastricciata di colori. Fuori, invece, tutto si può dire cambiato. I suoi quadri “raccontano” scorci di Solighetto da decenni ormai radicalmente trasformati; il verde degli spazi, ritratti spesso en plein air, gli orizzonti ricchi d’aria e luminosità sono stati riempiti da case e strade. Allo stesso modo, i colpi di scalpello di Attilio oggi verrebbero sommersi dal rumore delle auto mentre le lente cadenze del suo lavoro, dettate da una cura meticolosa verso il manufatto, mal risponderebbero ad urgenze produttive pressanti. C’era una volta un paese, c’erano una volta i suoi artigiani, le botteghe, l’abilità della mano, il sapere che nasceva dal fare ma al medesimo tempo la pratica che si nutriva con lo studio di un’alta tradizione. Delineare l’opera di Attilio ed Emilio Fontana ci porta in modo inevitabile a riprendere in mano i fili della nostra storia locale, a confrontarci con quel tessuto di esperienze nel campo dell’arte, del lavoro, della scuola, sul quale hanno preso forma tanti caratteri (positivi) del presente. Dell’insegnamento dei Fontana ( e di altri artisti), profuso nel proprio laboratorio e nelle lezioni alla Scuola serale di disegno, si sono potuti avvalere generazioni di operai, di imprenditori, che hanno poi costruito lo sviluppo artigianale ed industriale della zona. Chiese, cappelle, palazzi – gli edifici che costituiscono per la comunità i luoghi completi e simbolici di ritrovo, di identificazione – sono a tutt’oggi ricchi della loro opera e del loro contributo. Ma come definiremo nel modo più giusto queste personalità? Artigiani? Artisti? Maestri? O saremo tentati anche noi di chiamarli semplicemente Tilio e Milio, come erano soliti fare tanti compaesani? Perché erano persone miti, semplici, dall’innata cordialità e modestia: l’esecuzione minuziosa di qualsiasi manufatto, dalla scelta dei materiali alle rifiniture dei particolari, non era un vanto di cui dar sfoggio ma un carattere connaturato al fare, che si trasformava in giudizio severo nei confronti innanzitutto dei propri lavori; le conoscenze del mestiere non erano un bagaglio da tenere segreto ma un patrimonio da diffondere. Certo, le circostanze storiche hanno influito sul loro cammino e hanno limitato le possibilità di un maggiore affinamento ma anche di un adeguato riconoscimento dell’arte dei Fontana: la Prima Guerra Mondiale impedisce ad Emilio di recarsi a Milano per approfondire gli studi, le difficoltà economiche sempre incombenti spingono i due fratelli ad adattarsi a tipi diversi di commissioni, la crisi del ’29 li obbliga a chiudere il laboratorio da poco avviato e costringe Attilio a prestare la propria opera in una bottega d’altri, dove per forza di cose il suo lavoro, pur importante, diviene anonimo. Ciononostante, la passione, per la scultura e la pittura, rimasta tesa ed attiva lungo l’intero arco della loro vita, si è concretizzata in una serie di risultati che chiaramente definiscono l’alto livello dei Fontana, parlano del loro mestiere e, cosa fondamentale, ne svelano l’arte. Va bene artigiani dunque, ma non dimentichiamoci di chiamarli anche artisti. Arte è la forza plastica, l’eleganza delle forme, la dedizione all’idea di bellezza che si traduce nei cavalli di Attilio, statue di piccole dimensioni dove il soggetto equestre viene studiato nella molteplicità delle sue attitudini: la frenesia della corsa, il ritmo regolare del trotto o la staticità del momento di quiete. Tutto comunque viene sempre trattenuto da un equilibrio che si nutre del gusto rinascimentale e neoclassico e che nulla concede a qualsivoglia eccesso di pathos. Così anche nei tratti dei familiari: la dolcezza dei volti ne restituisce l’alone affettivo ma senza venir meno alla misura del sentimento attraverso la quale lo scultore interpreta il suo ideale estetico. Nulla che non sia necessario, nulla che non sia strettamente correlato all’esigenze interne all’opera, nessun vezzo od intromissione sentimentalistica nella sua economia informale; e l’artista rimane silenzioso, nascosto dietro ad essa. Un’umiltà che nasce dalla consapevolezza del proprio lavoro e si sostiene con una disciplina rigorosa e quotidiana, anche quando Attilio realizza statue e bassorilievi per edifici sacri. Linee nitide plasmano figure di madonne, santi o angeli, tracciano simmetrie, ne trattengono la posa in una raccolta compostezza pur lasciando trasparire una delicata umanità. Uguale modestia e stesso rigore caratterizzano Emilio. Alcuni lo ricordano tuttora durante la sua prima personale (allestita, a più di ottant’anni, grazie all’insistenze di alcuni ex allievi) rimanersene in disparte, accanto alla porta. E in fondo questa è l’immagine che forse meglio riflette la pratica pittorica di tutta la sua vita: una pittura che si crea “in un angolo”. Non solo perché praticata quando altre incombenze lo lasciavano un po’ libero o quando, risparmiando, poteva permettersi l’occorrente, e non solo perché perseguita in modo appartato, quasi celato agli occhi altrui. Si tratta di una sorta di pudore che si ritrova nella formulazione stessa dei suoi quadri: la reverenza nei confronti della natura, a lungo meditata, la sensibilità nel trattare ogni soggetto restituendolo sulla tela in morbide fusioni cromatiche, in un continuo dissolversi di una tinta nell’altra. C’è sempre una sorta di rispettoso distacco nello sguardo dell’artista, la sua contemplazione delle cose somiglia ad un’affettuosa eppure trattenuta carezza. Per questo i suoi soggetti si offrono con tanta eleganza, che si tratti di paesaggi, di scorci di paese, di ritratti, o degli autoritratti dove mai si scivola nell’ostentazione di se poiché a vigilare vi sono sempre una grande umiltà e la padronanza dei mezzi espressivi.
Autoritratto
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© 2021 All rights reserved Created By Milena Bressan
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L’ultima tela, a metà interrotta, è ancora sul cavalletto. Niente, nel piccolo attico adibito a studio, è mutato da quando Emilio Fontana ha smesso di salire la stretta scala a chiocciola, aiutandosi con una corda che lui stesso aveva sistemato, per venire qui e dipingere. Pennelli, attrezzi, spazzole, biglietti da visita sono custoditi dentro un banco di legno; davanti la sedia, vicino la porta l’armadio con i libri d’arte e vecchi disegni in una scatola di cartone, sulla parete alcune foto, accanto la tavolozza impiastricciata di colori. Fuori, invece, tutto si può dire cambiato. I suoi quadri “raccontano” scorci di Solighetto da decenni ormai radicalmente trasformati; il verde degli spazi, ritratti spesso en plein air, gli orizzonti ricchi d’aria e luminosità sono stati riempiti da case e strade. Allo stesso modo, i colpi di scalpello di Attilio oggi verrebbero sommersi dal rumore delle auto mentre le lente cadenze del suo lavoro, dettate da una cura meticolosa verso il manufatto, mal risponderebbero ad urgenze produttive pressanti. C’era una volta un paese, c’erano una volta i suoi artigiani, le botteghe, l’abilità della mano, il sapere che nasceva dal fare ma al medesimo tempo la pratica che si nutriva con lo studio di un’alta tradizione. Delineare l’opera di Attilio ed Emilio Fontana ci porta in modo inevitabile a riprendere in mano i fili della nostra storia locale, a confrontarci con quel tessuto di esperienze nel campo dell’arte, del lavoro, della scuola, sul quale hanno preso forma tanti caratteri (positivi) del presente. Dell’insegnamento dei Fontana ( e di altri artisti), profuso nel proprio laboratorio e nelle lezioni alla Scuola serale di disegno, si sono potuti avvalere generazioni di operai, di imprenditori, che hanno poi costruito lo sviluppo artigianale ed industriale della zona. Chiese, cappelle, palazzi – gli edifici che costituiscono per la comunità i luoghi completi e simbolici di ritrovo, di identificazione – sono a tutt’oggi ricchi della loro opera e del loro contributo. Ma come definiremo nel modo più giusto queste personalità? Artigiani? Artisti? Maestri? O saremo tentati anche noi di chiamarli semplicemente Tilio e Milio, come erano soliti fare tanti compaesani? Perché erano persone miti, semplici, dall’innata cordialità e modestia: l’esecuzione minuziosa di qualsiasi manufatto, dalla scelta dei materiali alle rifiniture dei particolari, non era un vanto di cui dar sfoggio ma un carattere connaturato al fare, che si trasformava in giudizio severo nei confronti innanzitutto dei propri lavori; le conoscenze del mestiere non erano un bagaglio da tenere segreto ma un patrimonio da diffondere. Certo, le circostanze storiche hanno influito sul loro cammino e hanno limitato le possibilità di un maggiore affinamento ma anche di un adeguato riconoscimento dell’arte dei Fontana: la Prima Guerra Mondiale impedisce ad Emilio di recarsi a Milano per approfondire gli studi, le difficoltà economiche sempre incombenti spingono i due fratelli ad adattarsi a tipi diversi di commissioni, la crisi del ’29 li obbliga a chiudere il laboratorio da poco avviato e costringe Attilio a prestare la propria opera in una bottega d’altri, dove per forza di cose il suo lavoro, pur importante, diviene anonimo. Ciononostante, la passione, per la scultura e la pittura, rimasta tesa ed attiva lungo l’intero arco della loro vita, si è concretizzata in una serie di risultati che chiaramente definiscono l’alto livello dei Fontana, parlano del loro mestiere e, cosa fondamentale, ne svelano l’arte. Va bene artigiani dunque, ma non dimentichiamoci di chiamarli anche artisti. Arte è la forza plastica, l’eleganza delle forme, la dedizione all’idea di bellezza che si traduce nei cavalli di Attilio, statue di piccole dimensioni dove il soggetto equestre viene studiato nella molteplicità delle sue attitudini: la frenesia della corsa, il ritmo regolare del trotto o la staticità del momento di quiete. Tutto comunque viene sempre trattenuto da un equilibrio che si nutre del gusto rinascimentale e neoclassico e che nulla concede a qualsivoglia eccesso di pathos. Così anche nei tratti dei familiari: la dolcezza dei volti ne restituisce l’alone affettivo ma senza venir meno alla misura del sentimento attraverso la quale lo scultore interpreta il suo ideale estetico. Nulla che non sia necessario, nulla che non sia strettamente correlato all’esigenze interne all’opera, nessun vezzo od intromissione sentimentalistica nella sua economia informale; e l’artista rimane silenzioso, nascosto dietro ad essa. Un’umiltà che nasce dalla consapevolezza del proprio lavoro e si sostiene con una disciplina rigorosa e quotidiana, anche quando Attilio realizza statue e bassorilievi per edifici sacri. Linee nitide plasmano figure di madonne, santi o angeli, tracciano simmetrie, ne trattengono la posa in una raccolta compostezza pur lasciando trasparire una delicata umanità. Uguale modestia e stesso rigore caratterizzano Emilio. Alcuni lo ricordano tuttora durante la sua prima personale (allestita, a più di ottant’anni, grazie all’insistenze di alcuni ex allievi) rimanersene in disparte, accanto alla porta. E in fondo questa è l’immagine che forse meglio riflette la pratica pittorica di tutta la sua vita: una pittura che si crea “in un angolo”. Non solo perché praticata quando altre incombenze lo lasciavano un po’ libero o quando, risparmiando, poteva permettersi l’occorrente, e non solo perché perseguita in modo appartato, quasi celato agli occhi altrui. Si tratta di una sorta di pudore che si ritrova nella formulazione stessa dei suoi quadri: la reverenza nei confronti della natura, a lungo meditata, la sensibilità nel trattare ogni soggetto restituendolo sulla tela in morbide fusioni cromatiche, in un continuo dissolversi di una tinta nell’altra. C’è sempre una sorta di rispettoso distacco nello sguardo dell’artista, la sua contemplazione delle cose somiglia ad un’affettuosa eppure trattenuta carezza. Per questo i suoi soggetti si offrono con tanta eleganza, che si tratti di paesaggi, di scorci di paese, di ritratti, o degli autoritratti dove mai si scivola nell’ostentazione di se poiché a vigilare vi sono sempre una grande umiltà e la padronanza dei mezzi espressivi.
EMILIO ED ATTILIO FONTANA ARTISTI DEL ‘900
EMILIO ED ATTILIO FONTANA ARTISTI DEL ‘900